27/28 AGOSTO – 3/4 SETTEMBRE 2021
ore 13:00 – 17:00 (ora italiana)
L’ISTITUTO PSICANALITICO DI FORMAZIONE E RICERCA “A.B.FERRARI”, DI ARACAJU (BRASILE) IN PARTNERSHIP CON IL NUCLEO PSICANALITICO DI ARACAJU E CON L’ISTITUTO PSICANALITICO DI FORMAZIONE E RICERCA “A.B. FERRARI” DI ROMA (ITALIA)
ORGANIZZA IL CONVEGNO
“L’io e l’altro”
L’idea di questo convegno nasce dal desiderio di aprire una riflessione su temi inerenti la pratica clinica, a partire dalla relazione analitica che si fonda sull’incontro tra due mondi, quello dell’analista e quello dell’analizzando.
Due mondi che resteranno in gran parte sconosciuti l’uno all’altro, ma che nello sforzo della comune e reciproca comprensione creeranno una terza dimensione, quella della relazione che entrambi andranno costruendo nel corso dell’esperienza. Io e l’altro, l’analista e l’analizzando, ma anche Io e l’altro che sono io per me stesso, sia nell’analista che nell’analizzando.
Mondi e modi di essere che possono essere avvicinati rinunciando al già noto, attraverso la capacità di sorprendersi dell’ignoto che si va palesando a ogni passo: ignoto l’altro da me, ignoto Io stesso a me stesso, in quanto immersi entrambi in processi trasformativi.
“Vedere il branco dei draghi senza testa: successo supremo (I Ching, Il classico dei mutamenti, commentato da Wang Fuzhi, XVII secolo).(…) E’ questa la capacità sublime, il successo “supremo”, riuscire a rinunciare a un’idea iniziale (…) per cogliere tutte le sfumature nell’evolversi delle cose” (Siniscalco A., in Lella R., Lo Basso M.S., Milletti I., Romano F., Siniscalco A., La capacità di sorprendersi…, sarà presentato durante il convegno)
Verranno presentati temi che aprono questioni che non pretendono di fornire risposte e che emergono, appunto, dall’esperienza clinica di ogni giorno.
L’ORGANIZZAZIONE
Le relazioni previste per il convegno verranno inviate in anticipo agli iscritti, perché possano essere lette e approfondite prima dell’incontro.
Durante il convegno i relatori presenteranno in un tempo ridotto i punti salienti dei loro contributi, per poter lasciare il massimo spazio possibile al dibattito con i partecipanti all’Evento.
Crediamo che in questo modo il convegno si possa trasformare in un contesto di esperienza che può generare quesiti e nuovi spunti di studio e di ricerca.
Ricordiamo che rispetto agli orari previsti dal programma per chi seguirà l’incontro dall’Italia sono da considerare + 5h di differenza di fuso orario.
ISCRIZIONE
L’evento si svolgerà On-line, mediante piattaforma Sympla, in connessione con Zoom.
Di seguito il link per accedere alla piattaforma dove effettuare l’iscrizione.
Nella pagina di apertura, in alto a destra, c’è la possibilità di scegliere la lingua per effettuare l’iscrizione, tra portoghese, inglese e spagnolo.
Durante il convegno si potrà usufruire invece della traduzione simultanea portoghese-italiano.
L’iscrizione ha un costo di 100,00 reais, equivalenti a € 16,00.
Per gli allievi il costo sarà di € 8,00.
E’ necessario iscriversi rapidamente, perché la piattaforma dispone di posti limitati.
Cliccare sul seguente link:
https://www.sympla.com.br/congresso-internacional-de-psicanalise–xii-encontro-italo-brasileiro-de-psicanalise-o-eu-e-o-outro__1189737
LA STORIA
Dal 2000 ebbe inizio la consuetudine di creare dei momenti di scambio tra il gruppo italiano di psicoterapeuti, medici, ecc fondato dal prof Armando B. Ferrari, psicanalista di quarta generazione (morto nel 2006) che collaborò con W.R.Bion negli anni ’70 e fino alla sua morte, e vari gruppi di psicanalisti brasiliani che collaborarono con lui.
Da alcuni anni l’Istituto Psicanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari” di Roma ha dato luogo ad un analogo Istituto con sede a Aracaju (Sergipe-Brasile).
I due Istituti ogni due anni (continuando la tradizione iniziata nel 2000), si incontrano in convegni definiti Incontro Italo-Brasiliano, per dibattere temi che emergono da un comune lavoro di ricerca e studio teorico-clinico.
Per ulteriori approfondimenti segnaliamo mandare una mail a info@unoebino.it
“ Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’ e’ un campo: ti aspetterò laggiù!”
Jalaluddin Rumi (XIII Secolo)
Dalla consultazione alla costruzione del contesto terapeutico
GIORNATA DI STUDIO
28 Novembre
Piattaforma Zoom
Orario del collegamento: 9.00 – 13.00
“Mi dica lei cosa devo fare”
Dr. Stefano Fantozzi
Questa frase molto spesso emerge negli incontri clinici, specialmente nel periodo iniziale di lavoro. Le persone vengono da noi, ritenuti “esperti”, nella speranza e desiderio di ricevere soluzioni alla difficoltà incontrata in quel periodo della propria vita. L’Assunto implicito, che soggiace a questa richiesta, è che l’altro sappia ciò che la persona non sa. Difatti si stanno sempre di più espandendo corsi che propongono tecniche per la risoluzione di ogni tipo di disagio; procedure da offrire agli interlocutori, definiti pazienti, soluzioni efficaci, testate e validate scientificamente. Il punto è che l’assioma iniziale, “uno sa e uno non sa”, resta. Nel lavoro clinico, però, le cose non stanno proprio così. L’assunto è diverso.
“Nome: Protocollo; Cognome: Diagnostico. Un imputato con alibi?”
Dr.ssa Cristiana Picconi
Come molti di noi terapeuti, quando ci viene inviata una famiglia con un minore (bambino o adolescente) in difficoltà, siamo spesso posti di fronte alla questione di formulare una diagnosi: “misurare” attraverso l’uso di protocolli, un bambino/adolescente affinché nei diversi contesti (terapeutico, familiare, scolastico) possa ricevere il sostegno e l’aiuto di cui necessita. È una questione molto delicata e complessa che non può essere risolta unicamente facendo appello alle Linee Guida.
Pertanto, se l’osservatore non è mai esterno al processo di conoscenza, ma partecipa attivamente a costruire il sistema osservato, la diagnosi può essere considerata un processo valutativo dinamico all’interno del quale il “modo”, il “come” il terapeuta indaga ed utilizza il dato “quanto”, può produrre degli effetti terapeutici sul sistema osservato? E se sì , in che modo?
Iscrizione gratuita
confermare adesione su info@unoebino.it per ricevere il link per il collegamento
Anna Siniscalco, Fausta Romano (*)
Editing a cura di Roberto Seghetti.
Abbiamo avuto il piacere e l’onore di ricevere il prof Severino Roque (**) a Roma in un seminario dedicato esclusivamente ai partecipanti al Corso di approfondimento teorico clinico dell’Istituto Psicanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari”, dell’anno 2018/2019, il 9 marzo 2019.
L’idea di invitarlo è nata all’interno di una collaborazione tra Anna Siniscalco, Presidente della Associazione Dinamica Tai Chi Chuan e arti Associate, ASD3 (***), e il nostro Istituto Psicanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari”, durante la quale abbiamo potuto conoscere come una parte delle radici teoriche della Disciplina del Tai Chi Chuan affondino nel pensiero e nella filosofia buddista e una parte nella filosofia del Tao.
Ci è sembrato interessante durante questo lavoro durato un anno, e che proseguirà anche nell’anno accademico 2019/2020, cercare di studiare i punti di affinità e di differenza tra la filosofia buddista e la sua parte pratica rappresentata dalla disciplina Tai Chi Chuan e la ipotesi psicanalitica detta dell’Oggetto Originario Concreto o dell’Eclissi del corpo, proposta dal prof. A.B. Ferrari a partire dalla sua pratica di psicanalista e dalla sua formazione psicanalitica e di antropologo/sociologo.
Durante il seminario il prof. Roque si è disposto a presentare alcuni aspetti fondanti del pensiero buddista, in modo particolarmente mirato agli psicoterapeuti partecipanti, in modo per quanto possibile sintetico avendo a disposizione soltanto quattro ore.
Nella speranza di poterlo incontrare nuovamente, abbiamo pensato intanto di sottoporgli alcune questioni in forma di intervista scritta, alle quali il professore si è disposto a rispondere in modo sollecito
e generoso.
Qui di seguito, quindi la versione integrale dell’intervista, tradotta dal portoghese in italiano dalla prof.ssa Stefania Buonamassa. Per notizie più approfondite sul Lama Zopa Norbu, rimandiamo al sito www.dinamica.it
Una parte di questa intervista verrà pubblicata su Dinamica La Rivista, diretta da Roberto Seghetti, alla quale si può accedere in form on-line attraverso il sito www.dinamica.it.
DOMANDA. Che cosa intende lei con “essere in pace”? E a cosa si riferisce il concetto di Mente Pacificata? È una condizione o un processo?
Entrambe le cose. Nel suo aspetto trascendentale, la mente “è già in pace”, non abbandona mai questa condizione, ma la nostra psiche “non lo sa” e quindi è necessario
il “processo di pacificazione della mente”.
Prima di proseguire, però, è bene fare una piccola introduzione, così possiamo intenderci.
Il principale insegnamento di Buddha è rappresentato dai tre giri della ruota del Dharma. Secondo il Grande Maestro Nagarjuna, con il primo giro della ruota del Dharma, Buddha ha semplicemente negato l’esistenza di un’entità individuale che sia permanente e sostanziale. Nel secondo giro della ruota del Dharma, Buddha ha introdotto i propri discepoli alle nozioni sulla vacuità dei fenomeni, fisici e mentali. Qui mi riferisco alle scoperte realizzate dalla fisica dei quanti, argomento questo da approfondire.
Con questo sottolineando l’idea che la personalità dell’uomo è un insieme di fattori psichici, ma non ha un’esistenza reale (per saperne di più raccomando la visita al sito che segue e cercare il sutra del Re Menandro. https://pt.wikipedia.org/wiki/Menandro_I#O_Milinda_Panha). Nel terzo giro della ruota del Dharma, Buddha presentava l’idea del Tathagatagarbha ovvero la Natura di Buddha.
Secondo quest’insegnamento, esiste un elemento o principio spirituale incorruttibile, noto appunto come Tathagatagarbha, ovvero natura di Buddha, completamente libera dalle passioni e da qualsiasi tipo di turbamento. Fatta questa premessa, ecco la risposta alla sua domanda. Nel Buddhismo tantrico si afferma che la mente assoluta ci mostra la mente nella sua purezza originale: essa rimane inalterata dai condizionamenti come tempo, spazio, dualità e sofferenza; è oltre la stessa individualità, oltre l’“io e l’altro” e tutte le sue limitazioni.
L’attività psichica è invece completamente intrecciata nella trama dell’illusione, della soggettività e della sofferenza. È questa dunque la nostra mente, tale come oggi la conosciamo.
Fonte di tanta sofferenza. Se potessimo osservare la nostra mente, quel che troveremmo sarebbe una costante e enorme quantità di pensieri confusi e sconnessi. Si potrà percepire che alcuni di questi pensieri sono gradevoli, addirittura piacevoli. Però altri sono sgradevoli, preoccupanti, fonte d’agitazione.
Ma se esaminiamo con più attenzione il funzionamento della mente, potremo provare che i pensieri gradevoli sono, in paragone, pochi, e i pensieri sgradevoli, tanti. Il che significa che, mentre le nostre menti sono governate o controllate da pensieri per gran parte sgradevoli, noi saremo molto infelici e non potremo godere appieno della libertà interiore; non importa quanto piacere fisico potremo sperimentare, non ci sentiremo mai felici.
DOMANDA. Ma come si raggiunge quella che lei definisce “libertà interiore”?
Dunque, la mente pacificata sorge dal risultato di una pratica seria, dallo stare attenti agli stati mentali d’afflizione e applicare, in modo istantaneo, il corrispondente antidoto.
Negli insegnamenti noti come “I 4 fondamenti dell’attenzione piena”, troviamo le seguenti espressioni: la “Meditazione di piena attenzione”, “Vigilanza” o “Osservazione Pura” che equivale al vivere pienamente il momento che passa, l’istante presente, il “qui e ora”, in piena coscienza.
Questo discorso è considerato il più importante tra quelli pronunciati da Buddha sulla pratica della meditazione o sviluppo mentale, ed è parte degli 8 fattori che portano all’illuminazione, noti volgarmente con l’espressione “nobile ottuplice cammino”, ovvero la “nobile quarta verità”.
La pratica della meditazione è realizzata cioè quando concentriamo la nostra attenzione, in forma piena, su quello che scegliamo di osservare. In questo caso, i 4 fondamenti sono:
- 1º. Rimanere sempre pienamente attenti al proprio corpo. Qui realizziamo due pratiche di base: l’attenzione alla postura e l’attenzione al respiro.
- 2º. Rimanere sempre pienamente attenti alle sensazioni fisiche: gradevoli, sgradevoli, neutre.
- 3º. Rimanere sempre pienamente attenti alla mente: siamo consci del sorgere e dello sparire dei pensieri, ma adottiamo la posizione dell’osservatore e non del giudice.
- 4º. Rimanere sempre pienamente attenti agli oggetti mentali.
DOMANDA. Che cosa sono gli oggetti mentali?
Gli oggetti mentali sono le emozioni afflittive. Più in particolare, gli oggetti mentali come un fondamento dell’attenzione piena possono dividersi in tre tipologie: oggetti mentali interni; oggetti mentali esterni; oggetti mentali in se stessi.
Rispetto agli oggetti mentali interni ed esterni qui è importante vedere come operano i cosiddetti cinque ostacoli, che sono dannosi, e cioè: 1. Concupiscenza, avidità; 2. Cattiva volontà, cattiveria; 3 Pigrizia, torpore; 4 Inquietudine e ansietà; 5 Dubbio.
Per quanto riguarda gli oggetti mentali interni:
- Primo ostacolo. La mente dà origine al desiderio, ma prima di fluire verso l’esterno al fine di fissare i suoi desideri su qualche oggetto in particolare.
- Secondo ostacolo. La mente dà origine a una sensazione di svogliatezza e scontento, pur senza aver ancora fissato la propria attenzione su qualche oggetto in particolare.
- Terzo ostacolo. Si fa strada nella mente uno stato di torpore, pur senza essersi ancora fissata – la mente – su un oggetto in particolare.
- Quarto ostacolo. La mente è inquieta, in ansia, turbata da se stessa, pur senza essersi ancora fissata su qualche oggetto in particolare.
- Quinto ostacolo. La mente ha dubbi e incertezze – è incapace di pensare con chiarezza – pur senza essersi ancora fissata su qualche oggetto in particolare. La mente si trova in
queste condizioni di per sé.
Dal momento che questi cinque ostacoli sono ancora deboli e non ancora aperti verso l’esterno (non sono ancora stati espressi da parole o atti) per rivolgersi a qualche oggetto
esterno, sono denominati “oggetti mentali interni”.
DOMANDA. E gli “oggetti mentali esterni”?
Semplicemente, vengono da dentro ed ecco come operano in questo contesto i cinque ostacoli:
- Primo ostacolo. Dopo che la mente ha fatto sorgere una sensazione di desiderio, fluisce verso l’esterno e si fissa su oggetti esterni, come visioni, suoni, aromi, sapori ecc. E poi
cerca di possedere l’oggetto.
- Secondo ostacolo. Dopo che la mente ha fatto sorgere una sensazione di svogliatezza, fluisce verso l’esterno e si fissa su una visione, suono, aroma, sapore ecc., e dopo odia il
suo oggetto, cercando di distruggerlo.
- Terzo ostacolo. La mente, ormai in stato di torpore, fluisce verso l’esterno e si fissa su un oggetto esterno. Dopo essersi fissata su un oggetto, si ‘addormenta’ ancora più profondamente. E così genera la sensazione di inferiorità, abbandono, apatia ecc.
- Quarto ostacolo. La mente, inquieta, fluisce all’esterno e si fissa su oggetti esterni, come visioni, suoni, aromi, sapori ecc., generando attività costante in modo compulsivo, causa, questa, dell’iperattività e della stanchezza cronica….
- Quinto ostacolo. Sorge nella mente uno stato mentale d’incertezza e la mente lo lascia fluire all’esterno, per fissarsi oggetti esterni come visioni ecc.; sorge in seguito il dubbio
che ci blocca e non ci permette di essere creativi e fluidi.
DOMANDA. Se ho ben capito, il desiderio in quanto senso di avidità e possessività nasce nella mente in sé. Ma come liberarci dal desiderio?
Bisogna intraprendere il “nobile ottuplice cammino”, ovvero la “nobile quarta verità”. Prima di parlarne credo che anche in questo caso sia necessaria una premessa.
Secondo il filosofo tedesco Martin Heidegger, i cui pensieri ancora oggi influenzano la vita occidentale, l’uomo è l’unico essere di questo mondo capace di formulare a se stesso una domanda: chi è l’uomo?
Chi è l’essere che è in questo mondo? In altre parole, chi sono io, da dove arrivo e cosa faccio sulla terra? Nel prendere coscienza di se stesso e del suo essere al mondo, l’uomo – dice Heidegger – avrà la capacità di scegliere ad ogni momento quel che desidera essere, cioè può mettere in pratica tutti i suoi sforzi a favore di un determinato obiettivo.
Per essere qualcuno che abbia significato in questa vita, dobbiamo cioè avere qualcosa che ci definisca, una professione, o un ideale di vita. Nonostante questo saremo tuttavia limitati da due fattori: l’essere nati in questo mondo e il periodo specifico in cui siamo nati. E dovremo fare i conti con un terzo fattore: la coscienza
della propria morte.
Heidegger si chiede: come possiamo affrontare la vita, se siamo fatti per la morte? Il fatto che si abbia coscienza della propria morte e, allo stesso tempo, notare che si posseggono
tutte le infinite possibilità di affermare se stessi nella vita genera una dicotomia (il buddhismo ne parla come l’inizio della nevrosi, cioè la nozione dell’io e dell’altro). E questa dicotomia genera, a sua volta, una profonda angoscia o, come si dice nella mistica cristiana, un profondo senso di turbamento. Come si supera? Secondo il filosofo tedesco solo l’accettazione della nostra condizione di esseri finiti, l’accettazione della morte, può aprire la strada alla realizzazione di un’esistenza autentica.
Siddhartha Gautama affrontò lo stesso problema 2500 anni prima di Heiddegger, ma ne ricavò un diverso pensiero. Quando Siddhartha si confronta con la vecchiaia, la malattia e la morte (condizione propria della vita umana e di qualsiasi vivente), si propone non di accettare, ma di sconfiggere tale condizione, che somiglia a una maledizione. Buddha cioè ci propone d’identificare la radice della sofferenza, non per giustificare la propria esistenza ma per liberarsi dalla sofferenza stessa. In occidente, la scelta della carriera, della realizzazione personale sarà il motore che giustifica la propria esistenza, ma quando poi si arriva alla realizzazione, sopraggiunge l’esperienza psicologica della fine, che si traduce nella sensazione di aver, spesso, lottato tutta la vita per nulla.
Questo pensiero, che molte volte non è razionalizzato, si trasforma in una sensazione di angoscia, di vuoto. Buddha propone invece che si abbia coscienza della propria motivazione, mettendo come punto di partenza la conoscenza della radice della sofferenza umana, affinché si possa generare in noi stessi sufficiente motivazione altruista che porti a procrastinare la propria realizzazione a favore del benessere dell’umanità (offerto ai suoi discepoli e a tutti i suoi seguaci come l’ideale del bodhisatwa). In altre parole: non importa dove ci si trovi, quale sia la propria professione, quanto sia importante e visibile il proprio ruolo nella società. Quello che importa è sentirsi utili, nel luogo dove ci si trova.
DOMANDA. Dunque l’esistenzialismo heideggeriano e 2500 anni prima il pensiero di Siddartha Gautama si interessarono alla questione della dicotomia esistente nella mente umana tra la consapevolezza delle proprie illimitate potenzialità e la drammatica consapevolezza della propria finitezza e mortalità. Per Buddha questa sarebbe la madre di tutte le dicotomie, la nozione di io e dell’altro da me, che, se profonda, è insuperabile, invece di generare pensiero, genera sofferenza e nevrosi. Ma allora quale via propone Buddha, il quale, come è noto, non intendeva fondare una religione?
Buddha inizia il suo insegnamento dall’affermazione incontestabile che “la sofferenza esiste”. È stato molto diretto, dal momento che apparteneva a una casta di guerrieri e aveva toccato con mano la distruzione, il dolore, la vendetta, i furti, insomma tutto quello che anche oggi leggiamo sui giornali o che abbiamo già provato sulla nostra pelle. In nessun momento ha detto di voler creare una religione. Si è dedicato all’osservazione diretta, come un medico che osserva la malattia del paziente, al fine di trovare la causa della malattia e il rimedio corrispondente.
Per queste ragioni, a Benares (in India), enuncia le cosiddette 4 nobili verità.
La prima verità è che la sofferenza esiste e nessuno può negarlo. Ma come si esprime?
Attraverso tre fattori: nascita, invecchiamento, morte.
Tutti nasciamo piangendo. Un pianto che può essere udito in tutto il mondo. Un pianto che continua fino alla morte dell’individuo. A volte è un pianto sonoro, altre volte brucia
internamente. Questo pianto è un lamento che richiede cibo, indumenti, medicine, denaro, veicoli, strade, case, fama e tanti altri problemi. Tutti noi abbiamo questo lamento interno,
in ogni istante. Invecchiamento e morte: non è l’aspetto apparente dell’invecchiamento ad essere doloroso, è il processo di crescita in sé che lo è.
Quando ci pensiamo, sopravviene il dolore.
Perché?
Perché la crescita ci porta in una sola direzione e iniziamo ad anticipare ciò che fatalmente accadrà: io morirò. Questo pensiero perturba profondamente. Se esistesse qualcosa per impedire la morte, la faremmo. Le persone spendono enormi fortune per impedire la crescita e la morte, non solo con interventi di chirurgia plastica, applicazioni di botox, medicine miracolose, ma anche con tante altre cose.
La sofferenza esiste dappertutto. È spaventoso pensarci.
Buddha dice la verità e, quando ascoltiamo questa verità, qualsiasi filosofia, religione, tutti i nostri affari, le nostre credenze, perdono improvvisamente valore. Per questo motivo spesso scoraggio le persone ad assumere posizioni di parte, che aumenteranno il loro dolore e faranno perdere loro prezioso tempo di vita.
Osservando la follia umana, Buddha ci offre un’opportunità, ci fa pensare a qualcosa troppo ovvio e ci aiuta a guardare in faccia la verità più fondamentale dell’umanità. Tu
morirai! Io morirò.
Quando gli occidentali hanno incontrato il Buddhismo, l’hanno accusato di ateismo e negatività; in realtà, Buddha non ha mai negato la spiritualità e l’idea di Dio: si è semplicemente
rifiutato di parlarne. Dopo averti svegliato e messo dinanzi alla realtà più fondamentale, dicendoti “la sofferenza esiste”, Buddha ti dice che se “esiste” deve avere una “causa”, quindi ti propone di spingerti a conoscere la causa di ciò che ti fa soffrire.
DOMANDA. Nella mia esperienza clinica la maggior parte delle persone chiede il mio aiuto poiché non è riuscito e non riesce ad emergere da una condizione che è propria dell’infanzia e che in quell’epoca della vita ha un senso: la spinta a possedere, a consolare l’angoscia della sicurezza perduta attraverso la spinta verso la conquista e il possesso del territorio (necessità filogenetica, orientata alla sopravvivenza).Non riescono cioè a lasciare andare, ad accettare il limite e la finitezza propria e del mondo e ad accedere alla questione del proprio essere semplicemente ciò che si è. Come si può affrontare con Buddha questo tipo di sofferenza?
Per questo Buddha parla nella seconda nobile verità della causa della sofferenza. Questa causa si divide in tre fattori. La prima è la sete dei sensi. Quando Buddha ci parla della sete dei sensi ci parla del desiderio; le persone non amano parlare del desiderio, perché anche il desiderio porta soddisfazione e ci fa vivere bei momenti della vita.
Essenzialmente, il desiderio è la forza che muove l’umanità e che, allo stesso tempo, genera l’avidità: quando si ottiene quel che si vuole, si diventa meschini e si vuole proteggere ciò che si possiede. Dice Buddha:
“Quando l’essere entra in contatto e fa esperienza o contempla una forma con la vista, ode un suono, percepisce un aroma, prova un sapore, sente un contatto fisico, fa esperienza di un’idea con la mente. Se queste esperienze, fratelli, risultano gradevoli, allora risvegliano la sensazione del gradevole e l’attaccamento al gradevole; se sono sgradevoli, risvegliano il rifiuto”. “Spinti, in realtà, dal desiderio sensuale, solo da questo vano desiderio, i re fanno guerra ad altri re, i principi ai principi, i sacerdoti ai sacerdoti, i cittadini ai cittadini, la madre al figlio, il figlio al padre, i fratelli tra loro, gli amici diventano nemici.” “… Tutte queste sofferenze, fratelli, hanno come causa il solo desiderio dei sensi”. “Inoltre, fratelli, a causa di questo desiderio, le persone violano i contratti, sottraggono i beni degli altri, rubano, tradiscono, seducono le donne sposate, prendono brutte strade con parole, pensieri e fatti che li accompagneranno fino a dopo la morte, cadendo in stati d’esistenza sempre più caratterizzati da indicibili sofferenze”.
“Adesso, poco importa quale sia il sentimento che si palesa, buono, cattivo o neutro, è sempre approvato e l’uomo, sempre, si attacca immediatamente ad esso. (Da quest’attaccamento deriva l’ossessione, e dall’ossessione nasce la follia). L’atto di attaccarsi è l’atto di legarsi all’esistenza, legarsi all’esistenza è la causa della futura nascita; nella rinascita futura nuovamente troveremo all’origine la decadenza e la morte, la pena, il lamento, il dolore, la tristezza, la sofferenza. Così nasce tutta la grande massa di sofferenza”.
Per questo motivo, sostiene Buddha, incontriamo la cosiddetta seconda sete, la seta dell’Esistenza Individuale, di una rinascita. Sorge cioè la necessità di ripetere quello che ci causa soddisfazione, una e un’altra volta, ripetiamo a noi stessi (se c’è un’altra vita, voglio rinascere in una famiglia più ricca, avere un corpo più desiderabile, mangiare cibo di prima qualità, non dover lavorare per vivere), ma qui si nascondono diverse trappole: questi desideri non si concretizzano immediatamente. In questo senso rinascita qui è da intendersi come l’eterna ripetizione: in sanscrito, SAMSARA.
In altre parole, il desiderio è sempre presente, ci obbliga a ripetere costantemente ciò che pensiamo ci dia soddisfazione, ma la soddisfazione non è permanente: a ogni esperienza finisce e il vuoto enorme, l’angoscia derivante, che è quello che la persona sente quando ne fa esperienza, riporta alla depressione, che, anzi, è il male del nostro tempo. Perché sorge la depressione? Perché la ricerca della soddisfazione dei sensi non ha successo. Da qui prende posto la terza sete o il desiderio dell’auto annichilazione: non avendo la possibilità di soddisfare tutti i nostri desideri, ce ne rimane uno, l’ultimo, che è il desiderio di morire, abbandonare la vita alla ricerca di una “vita migliore”. Ma come potrà essere migliore se siamo già totalmente contaminati da tutte queste nevrosi?
Dunque, Buddha ha continuato la sua ricerca e si è chiesto: visto che il desiderio è la causa di tutta la nostra sofferenza, come ci liberiamo da esso? Qui si configura la Terza Nobile Verità. È l’estinzione completa del desiderio, è il rifiuto del desiderio, è il liberarsi da esso.
DOMANDA. Ma come si fa? E che cosa c’entra il Nirvana, che cosa è? E c’è un cammino per arrivarci?
Buddha ci parla di come liberarci dal desiderio che è causa della nostra sofferenza. Per questa ragione, cita il cammino per arrivare al Nirvana, che è, in sintesi, la liberazione da qualsiasi sofferenza, ovvero la Quarta Nobile Verità del cammino che porta all’estinzione della sofferenza, conosciuto anche come l’Ottuplice Nobile Cammino o gli 8 fattori dell’illuminazione:
Comprensione corretta – Intenzione corretta o pensiero corretto – Parola corretta – Attenzione corretta – Vivere corretto – Sforzo corretto – Applicazione corretta – Meditazione corretta.
Dice Buddha:
“Cos’è, dunque, fratelli, la comprensione corretta? Quando il discepolo comprende il male, comprende la radice del male, comprende il bene e la radice del bene: questo, fratelli, è la corretta comprensione”.
“Cos’è il male, fratelli? Tre azioni realizzate con il corpo: Uccidere – Rubare – Avere rapporti sessuali disonesti. Quattro azioni realizzate con la parola: mentire – calunniare – lasciarsi andare all’ira – parlare senza senso”. E tre tipi di pensieri: desiderare le cose d’altri – dare opinioni sbagliate o ingannevoli – indurre a pensare male. Tutti questi fattori rappresentano il male. E qual è la radice del male?
L’avidità, l’ira e l’illusione sono la radice del male”.
“E qual è la radice del Bene? È essere liberi dall’ira, dall’avidità e dall’illusione. Questa è la radice del bene. Inoltre, fratelli, quando il discepolo comprende la sofferenza, la causa della sofferenza, e la strada che porta alla fine della sofferenza, questo, fratelli, è la comprensione corretta. Quando il discepolo osserva che la forma, la percezione, il sentimento, le tendenze e la coscienza sono cose transitorie, in quel caso possiede la Comprensione corretta”.
Dice ancora Buddha:
“Cos’è, dunque, fratelli, l’intenzione corretta? Il pensiero libero dalla sensualità; Il pensiero libero dalla cattiva volontà, o volontà rivolta a ciò che è male;
Il pensiero libero dalla crudeltà”.
Ancora. Dice Buddha:
“Cos’è, dunque, fratelli, la parola corretta? L’uomo, fratelli, ha sconfitto la menzogna, ha sconfitto la falsità. Dice il vero, è devoto alla verità, è degno di fiducia, non inganna le persone…Così, non mente mai in coscienza, neanche per amore al proprio vantaggio, o al vantaggio di altri, per nessun motivo. Ha sconfitto il pettegolezzo, la calunnia, non offende. Quello che ascolta qui, non ripete altrove, per non essere causa di malinteso o litigio. Diventa un elemento di riconciliazione, si rallegra nella concordia, diffonde la concordia con le sue parole. Ha rinunciato al linguaggio irato, usa parole delicate all’orecchio, parole che risvegliano l’amore nei cuori delle persone, parole gentili, parole che fanno felici molte persone, parole che innalzano a tanti. Ha sconfitto la chiacchiera vana, parla al momento giusto, secondo i fatti, parla opportunamente….Quel che dice è considerato prezioso, non contraddice quel che pensa”.
Altro fattore. Dice Buddha:
“Cos’è, dunque, fratelli, l’azione corretta?…Fratelli, quest’uomo ha rinunciato a uccidere, in qualsiasi modo, sia a mani nude, sia con le armi.
È un uomo compassionevole, ricco di simpatia, ama la bontà e ha pietà di tutti gli esseri viventi”. “Ha rinunciato al furto e alla rapina, prende solo ciò che gli è offerto, conserva ciò che gli è stato dato in custodia, insomma evita di impossessarsi di qualsiasi cosa che non gli appartenga”. “Ha rinunciato a qualsiasi forma di rapporto sessuale disonesto, non seduce le donne sposate, non ha rapporti sessuali in prossimità delle dimore di uomini santi o discepoli in meditazione, e neanche vicino o dentro luoghi considerati sacri. Non ha rapporti sessuali con prostitute o con bambini.. Questo, fratelli, è quel che chiamiamo
Azione corretta”.
Quinto fattore. Dice Buddha: “
Cos’è, dunque, fratelli, il vivere corretto? Il vivere corretto o il modo di vivere corretto è astenersi dai cinque tipi nefasti di commercio: di armi, di esseri viventi, di carne, di bevande alcoliche e di droghe o veleni. E inoltre, il modo di vivere corretto include l’onestà nel lavoro che si sta realizzando e l’ottenimento del proprio sostentamento nel modo più onesto possibile”.
Sesto fattore. Dice Buddha:
“Cos’è, dunque, fratelli, lo sforzo corretto? Fratelli, esistono quattro grandi sforzi:
Lo sforzo per evitare: … si fa di tutto per mantenere la mente costantemente attenta, affinché i pensieri, le parole e gli atti sbagliati non abbiano luogo.
Lo sforzo di vincere: significa essere attenti e concepire in se stessi la volontà di vincere il male…
Lo sforzo di sviluppare: costantemente, si orienta la propria mente a sviluppare pensieri positivi, di amore e concordia. Si sviluppa uno stato di costante attenzione, per evitare o annullare stati mentali che non siano consoni alla compassione, alla cordialità e all’amore per il prossimo.
Lo sforzo di mantenere: rimanendo sempre in allerta, sopprimendo stati mentali negativi e sviluppando stati mentali positivi, si tenta costantemente di mantenere la mente in armonia con l’ambiente e con tutti gli esseri, al fine di aiutare lo sviluppo della mente calma”.
Dal settimo fattore Buddha presenta i 4 fondamenti della piena attenzione.
“Cos’è, dunque, fratelli, l’applicazione corretta? Il discepolo, fratelli, vive in contemplazione del corpo, delle sensazioni, della mente e dei fenomeni interni (sono questi i 4 fondamenti dell’attenzione piena) instancabilmente, chiaramente cosciente, con i sensi presenti, e avendo vinto i desideri di questo mondo. Grazie alla corretta applicazione dei quattro fondamenti citati prima (4 grandi sforzi) egli raggiunge la purezza, vince il dolore, il lamento, arriva alla fine della sofferenza e della pena, al Nirvana”.
I quattro fondamenti dell’attenzione piena (contemplazione del corpo, delle sensazioni, della mente, dei fenomeni interni) sono parte di questo settimo fattore, che corrisponde all’applicazione corretta: ma anche tutti gli altri fattori, come la corretta comprensione, il pensiero corretto, lo sforzo corretto e i tre fattori della Virtù corretta.
Ognuno di questi fattori è necessario per raggiungere l’obiettivo dell’attenzione piena. Buddha disse che, se qualcuno sviluppasse tutti i fondamenti secondo il modo descritto per soli sette giorni, questa persona arriverebbe all’Illuminazione Piena, o stato di non ritorno. Infine, ottavo fattore. Dice Buddha: “Cos’è, dunque, fratelli, il corretto Samadhi? “Fissare la mente su un punto, questo è Samadhi. I quattro fondamenti dell’applicazione, o attenzione piena, sono questi gli oggetti del Samadhi. I quattro grandi sforzi sono invece i mezzi necessari al Samadhi. Praticare, coltivare e sviluppare questi elementi significa sviluppare il Samadhi”.
DOMANDA. Nel corso di um nostro incontro Lei ci ha detto che “tutti i conflitti entrano in armonia tra loro come gli strumenti di un’orchestra” e che “la tua mente dev’essere centrata e in pace, soltanto così potrai addentrarti nella conflittualità”. Dunque, questo concetto di armonia include la conflittualità? L’armonia sarebbe uno stato, una condizione, oppure un processo di armonizzazione degli opposti? Il suo concetto di armonia include anche l’esistenza del suo opposto, la disarmonia?
Come ho detto con le risposte precedenti, il punto di “disarmonia” o “causa del conflitto” nasce dall’ego che crea la separazione tra l’“io” e l’“altro”; da qui, nascono le cause della “scienza del bene e del male”, cioè del conflitto. Il conflitto è proprio dell’essere umano, a causa della coscienza che questi ha di se stesso e del suo habitat; non può evitare il conflitto che, in realtà, sorge a causa della sua interpretazione erronea degli avvenimenti che osserva e di cui fa esperienza. Afferma Buddha: “Anche avendo la natura di Buddha, siamo vittime di tutte le limitazioni di una persona comune. Questo si deve ai “veli della mente”. Quando sono sorti questi veli? In effetti, non hanno origine, ma ricoprono la mente da quando esiste, e cioè, da sempre.
E quali sono questi veli? Il primo velo è quello dell’ignoranza.
La mente fondamentale è ancora chiamata “il potenziale della partenza verso la felicità”. Appartiene a tutti gli esseri. Non riconoscerla è ignoranza e ciò costituisce il principale velo che copre la mente. I nostri occhi ci permettono di vedere con chiarezza gli oggetti esterni; ma non possono vedere il nostro viso, neanche loro stessi. Analogamente, la mente che non vede se stessa non si riconosce per ciò che è. È questo ciò che chiamiamo velo dell’ignoranza.
Il secondo velo è quello dei condizionamenti latenti. La prima conseguenza dell’ignoranza è la dualità. La mente concepisce in modo falso un io, centro di qualsiasi esperienza, concepisce oggetti percepiti come altri. Dividendo la mente unica in due, viviamo nell’universo della dualità soggetto-oggetto, io e l’altro. Questo è il secondo velo, il velo dei condizionamenti latenti.
Il terzo velo è quello delle emozioni conflittuali. Dalla nozione di io deriva necessariamente la speranza di ottenere ciò che è gradevole e che dia conforto all’io nella sua esistenza, così come la paura di non ottenere quel che si desidera e vivere situazioni minacciose. Dunque, dalla nozione dell’“io” deriva la speranza e la paura. Nella nozione dell’“altro” sono riuniti tutti gli oggetti dei sensi: forme, suoni, odori, sapori, contatti o oggetti mentali. Qualsiasi oggetto percepito come gradevole crea allegria e qualsiasi oggetto percepito come sgradevole determina scontento. Da queste due sensazioni sorgono i sentimenti che si trasformano in attaccamento e avversione. In effetti, non vengono da nessuna parte se non dal vuoto della mente e non hanno, quindi, nessuna esistenza materiale, nessuna entità propria. Non li riconosciamo, così come non riconosciamo la vera natura dei fenomeni, e associamo loro una realtà non dovuta; a questo non-riconoscimento diamo il nome di cecità o opacità mentale. Così, arriviamo a un gruppo di tre emozioni conflittuali di base, che sono attaccamento, avversione e cecità, da cui derivano altri tre elementi: dall’attaccamento deriva l’avidità; dall’avversione, la gelosia; dall’opacità mentale, l’orgoglio.
Il quarto velo è quello del karma. Sotto il dominio delle emozioni conflittuali, commettiamo qualsiasi tipo di atto negativo nei confronti del corpo, della parola e della mente: atti, questi, che vanno a costituire il velo del karma.
Pertanto, sono quattro i veli che, successivamente, sono generati: il velo dell’ignoranza: la mente non riconosce se stessa; il velo dei condizionamenti latenti: la dualità, ovvero la scissione tra l’io e l’altro; il velo delle emozioni conflittuali: gli 84mila turbamenti derivanti dalla dualità; il velo del karma: gli atti negativi commessi sotto il dominio delle emozioni conflittuali.
Al comprendere questi elementi, il terapeuta può fare uso di uno strumento più acuto, che lo renderà atto a conoscere i meccanismi della sofferenza dei suoi pazienti. Questa sofferenza intensa che essi sperimentano è dovuta alla coscienza e al desiderio di un ideale di purezza che, allo stesso tempo, fa in modo che siano consci dello sgradevole, della disarmonia.
Quanto più si cerca la perfezione, più sorge il sentimento contrario d’imperfezione.
Quanto più cerchiamo la luce, più ombra proiettiamo.
Se questo è salutare in un processo creativo (nelle arti o nella vita degli esseri che cercano di migliorare costantemente le loro carriere e professioni), la situazione diventa patologica a causa dell’attaccamento alla percezione di “disarmonia”.
Fino a quando il paziente non riconosce che la felicità e la sua sofferenza hanno origine nella sua stessa mente, fino a quando non riuscirà a distinguere questa situazione, tanto il paziente quanto il terapeuta rimarranno incapaci di definire uno stato di felicità autentica e saranno impotenti nel cercare di evitare le continue ricadute nella sofferenza.
Per questo motivo è così necessario che il terapeuta faccia esercizio di meditazione in calma, affinché possa addentrarsi nella mente malata del suo paziente e recuperare la mente sana che già esiste dentro di lui.
DOMANDA. Wilfred Rupert Bion, psicoanalista inglese, nato e cresciuto in India per i primi otto anni di vita, ha rivoluzionato la teoria e la tecnica psicoanalitica introducendo il concetto di mente come funzione. Egli è considerato da A.B. Ferrari come il “suo maestro”. Tra l’altro, affermava che l’analista dovrebbe avere accesso alla relazione con l’analizzando “senza memoria e senza desiderio”. Ciò significa che se l’analista entra nella relazione pieno delle proprie teorie, ricordi e preconcetti(il passato) e di aspettative su quanto dovrebbe accadere (il futuro), non riesce a vedere nulla di quanto si sta svolgendo nell’hic et nunc di ogni seduta (il presente)sotto gli occhi propri e dell’analizzando, perdendo il potenziale trasformativo e esperienziale di ogni incontro. Allo stesso modo, se l’analizzando si serve della propria storia passata per giustificare il proprio stato di malessere rimane prigioniero nelle sue teorie e poco possiamo fare per lui, in quanto tutto è già accaduto in un lontano passato. È possibile vedere in questo un punto di assonanza con il suo modo intendere l’uso del passato, del presente e del futuro? Pensiamo che noi“siamo la nostra storia” e che il vivere ci trasforma continuamente, così come la morfologia del neurone è la sua storia: esso si trasforma in continuazione attraverso il suo funzionamento. E quindi è chiaro che: non si può tornare indietro nel tempo. Qual è la sua opinione?
Dice il saggio Seneca:
“In realtà non è vero che di tempo ne abbiamo poco, piuttosto ne sprechiamo tanto”.
“L’analista dovrebbe avere accesso alla relazione con l’analizzando “senza memoria e senza desiderio”.
Se il terapeuta riesce a realizzare quest’ideale, è già un essere illuminato! In realtà, ciò è il frutto di meditazione avanzata e ben realizzata.
Nella tradizione della scuola di cui faccio parte, questo stato si chiama mahamudra, o “grande simbolo”, o ancora “grande gesto”. Una definizione essenziale di mahamudra è la mente nel suo stato di riposo, in cui sperimenta la libertà interna che le permette di osservare la natura di tutte le cose; in questo caso, si tratterebbe di penetrare profondamente nella mente del paziente, dove il terapeuta troverebbe la causa fondamentale della sua sofferenza. Tuttavia, per arrivare a questo stato, il terapeuta deve realizzare la “sapienza che supera qualsiasi concetto, comprendendo così l’unità della “chiarezza e del vuoto”. Quest’elemento dovrebbe essere sviluppato in futuro, se il vostro gruppo volesse realizzare pratiche di meditazione profonda.
Quanto al fatto che l’analizzando, se si serve della propria storia passata per giustificare il proprio stato di malessere, rimane prigioniero nelle sue teorie e poco possiamo fare per lui, in quanto tutto è già accaduto in un lontano passato, io penso che questo sia il problema fondamentale, per il quale il terapeuta abbia urgente bisogno di possedere una disciplina mentale che gli renda possibile rimanere profondamente calmo.
In realtà, il paziente continuamente “reinterpreta la propria storia”. Anche noi viviamo in questo modo. Ogni volta che raccontiamo il nostro passato a un amico, lo stiamo reinterpretando e, ogni volta, aggiungiamo un giudizio. Nel Buddhismo, si dice che quando non siamo presenti in alcuna situazione della nostra vita, gli avvenimenti ci accadono e noi, semplicemente, viviamo in una continua ignoranza, come se fossimo costantemente ubriachi.
Dunque, si palesa qui il termine Samsara, che come ho già detto può essere inteso come rinascita della coscienza che si fa presente nell’attaccamento alle esperienze (concetto descritto nella seconda nobile verità), ma anche interpretato come “eterna ripetizione” o “eterna frustrazione”, perché viviamo in uno stato di coscienza frammentaria, alternando momenti di distrazione, desideri, emozioni distruttive ecc., svegliandoci per alcuni momenti di attenzione, comprensione e lucidità.
Il problema è che questi momenti di distrazione, negli attimi di lucidità, appaiono in modo così rapido che ci danno la falsa impressione di una “continuità”. Non dimentichiamo che la durata di un pensiero e di qualche decina di millesimo di secondo.
Pensate a com’era il cinema prima del digitale, con i film su pellicola. La telecamera registrava 36 foto al minuto. La nostra mente funziona come la luce della lampada del proiettore, e il movimento della bobina ci dà l’“illusione” del movimento degli attori, ma in realtà è tutto fermo, statico.
La meditazione buddhista insegna che, grazie a un’attenta osservazione della mente, è possibile vedere gli “oggetti mentali” come una sequenza di momenti coscienti, invece di una continua autocoscienza. Ciascun momento è esperienza di uno stato mentale specifico: un pensiero, un ricordo, una sensazione, una percezione. Uno stato mentale nasce, esiste e, essendo impermanente, cessa, lasciando il posto allo stato successivo. Questa continuità illusoria si trasforma costantemente grazie alla nostra “interpretazione soggettiva”, avendo – alla base – le emozioni precedentemente descritte e l’ignoranza fondamentale, ovvero la “non-conoscenza di base”.
Se il terapeuta non ha ben chiaro questo processo, gli sarà molto difficile comprendere la causa fondamentale dell’afflizione del suo paziente.
Quanto alla sua affermazione sul fatto che “la morfologia del neurone è la sua storia: il neurone si trasforma continuamente a causa del suo stesso funzionamento. E quindi è chiaro che: non si può tornare indietro nel tempo”, penso a uno studio scientifico in corso presso la USP (Università di São Paulo): riguarda la relazione “mente-corpo” ed è volto a provare scientificamente il funzionamento delle amigdale cerebrali; in che modo i traumi incidono sul loro funzionamento, producendo cortisolo. A breve, potrò presentare ulteriori dettagli su questa ricerca.
DOMANDA. Può chiarire il significato di mente, spirito e anima secondo la filosofia buddista? E in che rapporto sono questi aspetti?
Il concetto di spirito e anima, per gli occidentali che si avvicinano al pensiero orientale, può creare una certa confusione. In occidente, la parola ‘spirito’ ha la sua radice etimologica nel latino ‘spiritus’, che significa ‘respiro’, ‘soffio’, ma può riferirsi anche a ‘anima’, ‘coraggio’ e ‘vigore’. Nei sistemi religiosi occidentali, lo ‘spirito’ è definito dall’insieme di tutte le facoltà intellettuali.
Nel mondo antico, il soffio e ciò che apportava (il suono, la voce, la parola, il nome), conteneva la vita. Secondo il punto di vista religioso giudaico-cristiano, Dio avrebbe animato, col suo soffio, la terra per generare l’uomo (per essere nell’uomo). Dare un nome agli esseri viventi, farlo risuonare grazie all’emissione del soffio vocale, significava possedere (avere ciò che è loro, la carne, la voce, esserne proprietario). Così, si dice anche che al dare un nome agli animali, l’uomo ancestrale se ne è impossessato, ha preso qualcosa da loro e ha dato loro la rappresentazione, lo spirito.
Secondo la dualità cartesiana, il corpo e lo spirito sono due sostanze non miscibili, ognuna con una natura diversa: lo spirito apparterrebbe al mondo della razionalità (res cogitans), mentre il corpo alle cose del mondo con estensione (res extensa), al mondo delle cose misurabili. Descartes credeva che la funzione della ghiandola pineale fosse di unire l’anima/spirito al corpo.
Secondo il pensiero Buddista contenuto nell’Abhidharma (insegnamenti di Buddha sulla mente e gli stati mentali), quello che comunemente è noto o definito come spirito non è considerato un ente reale, ma una successione di istanti di coscienza, altrimenti detta continuum mentale, che, grazie alla memoria, sarebbe rivestita da un’apparente continuità e compattezza. Ciò non vuol dire che non si creda nello spirito. Al contrario. È noto mediante i suoi due aspetti indissociabili: la vacuità e il chiarore, che ci offrono la facoltà di conoscere.
In questo caso, il concetto di spirito si configura unito al concetto di “mente”. Abbiamo una nozione superficiale della mente. Per noi, la mente è ciò che sperimenta la sensazione di esistere, ciò che pensa “sono io”, “io esisto”. E ancora: la mente è ciò che prende coscienza dei pensieri e sente i moti emotivi, è ciò che, secondo le circostanze, si sente felice o infelice. Ma, a parte questo, non sappiamo, veramente, cosa sia la mente.
È evidente, in primo luogo, che la mente non ha un’esistenza materiale. Non è un oggetto del quale si possa definire il colore, le dimensioni, il volume o la forma. Nessuna di queste caratteristiche può applicarsi alla mente. Non possiamo indicare la mente e dire: “Ecco, questo è la mente”.
In questo senso, la mente è vuota. Tuttavia, benché la mente sia sprovvista di forma, colore eccetera, non è questo un fatto sufficiente per concludere che non esista, dal momento che i pensieri, i sentimenti, le emozioni conflittuali che la mente risente e che produce provano che ‘qualcosa’ esista e funzioni, che la mente non è, dunque, solo vuoto.
DOMANDA. Ma che rapporto c’è tra mente e corpo? Tra mente e coscienza?
Se la mente è nel corpo, in che parte di esso si trova? Possiamo identificare la sua posizione? Ne possiamo misurare le dimensioni? Ha una forma? E se si trovasse nel nostro corpo, in qualche organo specifico? La carne, il sangue, le ossa, i nervi, le vene, i polmoni, il cuore? Se ci pensate con attenzione, ammetterete che nessun arto, nessun organo rivendica la sua propria esistenza dicendo “io”.
Così, la mente non può essere assimilata a una parte dell’organismo. Prendiamo l’occhio, ad esempio. L’occhio non proclama la propria esistenza. Non dice a se stesso: “Io esisto”, oppure: “Devo guardare una determinata forma esterna; questa è bella, quella no; mi attacco alla prima e rifiuto la seconda”. L’occhio, di per sé, non ha volontà, non sperimenta nessun sentimento, né attaccamento, né avversione. È la mente che ha il sentimento dell’esistere, che percepisce, giudica, si lega a qualcosa oppure rifiuta.
Lo stesso vale per l’udito e i suoni, l’olfatto e gli aromi, il gusto e i sapori, la pelle e i contatti fisici, l’organo mentale e i fenomeni. Non sono gli organi che percepiscono, ma la mente. Gli organi sono solo il veicolo attraverso cui la mente sviluppa il processo della conoscenza, di sé e dell’altro. Gli organi del corpo sono incoscienti per natura, non sono la mente, sono come una casa in cui si abita.
Gli abitanti sono ciò che chiamiamo coscienze: coscienza visiva; coscienza uditiva; coscienza olfattiva; coscienza gustativa; coscienza tattile; coscienza mentale.
Queste coscienze non esistono in modo autonomo. Esistono perché la mente, mediante gli organi di senso, collegandosi con gli oggetti esterni, ha la nitida sensazione della sua esistenza, e quindi inizia a creare un intricato e sottile processo di conoscenza, per questo sono denominate le sei coscienze. Ricordo qui quanto ho accennato sugli oggetti mentali. Si potrebbe dire, inoltre, che il corpo è come un’automobile, e la mente ne è il conducente.
Quando l’auto è vuota, nonostante sia dotata di tutti gli strumenti per funzionare – il motore, le ruote, il carburante – e di essere in perfetto stato, non può andare da nessuna parte. Analogamente, un corpo privo di mente, anche se dispone di tutti gli organi, non è che un cadavere. Anche se ha occhi, orecchie, naso non può vedere, ascoltare, odorare.
Alcuni penseranno che la morte non colpisce solo il corpo, ma anche la mente: il primo diventa un cadavere, la seconda, semplicemente, cessa di esistere. Ma non è questo che accade. La mente non nasce e non muore, non è preda della malattia. È eterna! Per questa ragione, i ricercatori occidentali, quando si avvicinano agli insegnamenti buddisti, hanno associato alla mente il concetto di spirito.
Dunque, per descrivere la mente considereremo i suoi tre aspetti: la sua essenza, la vacuità; la sua natura, il chiarore; il suo modo di funzionamento, l’intelligenza.
Più in particolare, l’essenza della mente è essere vuota. Il che significa, come abbiamo già detto, che non ha esistenza materiale. Non ha forma, colore, volume, dimensioni. È impalpabile e indivisibile, simile allo spazio.
Tuttavia, la mente non è come uno spazio oscuro in cui neanche il sole, la luna o le stelle possano irradiare chiarore; è come lo spazio diurno, come lo spazio di una sala illuminata.
Ovviamente è un paragone solo approssimativo. Significa che la mente è dotata di un certo potere di conoscenza. Non è la conoscenza in sé, ma il chiarore, la facoltà cosciente, che lo fa diventare possibile. Tale potere comprende, inoltre, la facoltà di produrre le manifestazioni nelle più diverse forme. Possiamo dire che tutto il creato di questo mondo è una proiezione delle menti dei creatori (definizione che si può applicare anche agli stati più malati della psiche umana).
Grazie alla luce, possiamo vedere gli oggetti nell’ambiente in cui si trovano e essere consapevoli della loro presenza. Grazie al chiarore, la mente ha la facoltà di conoscere. Per questo motivo, nel Libro dei Mutamenti I Ching, quando si parla del Trigramma Li che è il sole, la luce, si dice anche che è la capacità di conoscere, cioè che non è possibile, in nessun modo, conoscere qualcosa nelle tenebre. Per questo motivo, le tenebre sono sempre associate all’ignoranza e la luce alla saggezza.
Chiarore della mente è qualcosa un po’ diverso dal chiarore in senso comune. Quest’ultimo permette solo l’esercizio della funzione visiva, mentre il chiarore della mente offre la possibilità anche di ascoltare, provare, degustare, toccare e avere consapevolezza dei piaceri o dispiaceri del mentale. Per esempio, basta avere un po’ di appetito o di sete e, pensando a un cibo delizioso, avere l’acquolina in bocca anche se il piatto non è davanti a noi: ne percepiamo gli aromi, il sapore.
Questa è la capacità completa del chiarore della mente, cioè i cinque sensi funzionano completamente in esso e con esso. Anche qui è spiegata la capacità di sognare che ci è propria: sognare a occhi chiusi durante la notte e a occhi aperti quando pensiamo a una situazione ideale.
Ma non basta. La sala dove vi trovate seduti contiene vacuità (lo spazio dell’ambiente) e chiarore (l’illuminazione). Tuttavia, non è sufficiente per attribuire alla sala il concetto di mente. Dobbiamo identificare un terzo elemento di descrizione. Affinché la mente esista, si deve aggiungere alla vacuità e al chiarore l’intelligenza senza ostacoli. È quest’intelligenza che permette effettivamente di conoscere ogni cosa, senza confusione.
Non solo la mente è consapevole dei fenomeni – il chiarore – ma li riconosce senza confonderli – l’intelligenza.
Per esempio, dinanzi allo spettacolo che guarda, sa cos’è il cielo, cos’è una casa, cos’è un uomo eccetera. In altre parole, l’intelligenza senza ostacoli è la facoltà di identificare, valutare, comprendere.
In conclusione, la mente è allo stesso tempo vacuità, chiarore e intelligenza. Possiamo dire che la mente è piccola? No, perché possiede la facoltà di far apparire e abbracciare tutto l’universo, ci offre la capacità di comprendere gli aspetti più sottili e metafisici dell’esistenza, ci porta a sondare l’universo e i suoi misteri, ci fa sognare altre galassie e costellazioni, insomma, ci offre il senso dell’eternità.
Allora è grande? Non possiamo dire neanche questo, visto che, se proviamo un dolore nitidamente localizzato, in un punto preciso del corpo, provocato, per esempio, da una puntura, assimiliamo la nostra mente a questo punto minuscolo, dicendo: “Mi fa male”.
In effetti, la mente, al di fuori di qualsiasi assimilazione, non è né piccola, né grande. Sfugge a questa categoria di concetti ma, quando iniziamo a praticare il Tai Chi Chuan o la meditazione seduta in modo più maturo, possiamo prendere atto degli stati d’irrequietezza e d’intemperanza della mente.
Una delle caratteristiche che dobbiamo osservare quando pratichiamo il Tai Chi Chuan è che abbiamo trovato uno strumento che ci aiuta a conoscere e ad addomesticare gli stati mentali.
Scarica qui la versione pdf dell’articolo
Qui la Biografica del Prof. Severino Roque
L’articolo integrale pubblicato su questo sito è in versione “estratto” su “Dinamica La Rivista” cui si accede attraverso il sito www.dinamicataichi.it.
Traduzione dal portoghese a cura di Stefania Buonamassa.
(**) Psicologa, Psicoterapeuta dell’individuo e della famiglia, Presidente dell’Istituto Psicoanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari”
(***)Anna Siniscalco è istruttrice di 6° livello di Tai Chi Chuan nella forma tradizionale Yang Family e discepola dell’ultimo dei discendenti della famiglia Yang, Yang Jun, con il nome Yang Yamei.
di Fausta Romano (*)
Editing a cura di Roberto Seghetti
Questo articolo descrive gli obiettivi e i primi risultati di un esperimento: verificare che cosa accade portando il Tai Chi Chuan all’interno di alcuni incontri tra analisti, in particolare in quelli organizzati ogni due anni, alternativamente in Italia e in Brasile, dall’Istituto Psicoanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari”, e poi in alcuni appuntamenti di formazione per analisti.
Va subito chiarito che così come esistono diversi modi di intendere e praticare il Tai chi Chuan, e qui mi riferisco alla forma tradizionale della famiglia Yang, esistono ad oggi differenti modi di intendere la teoria e la pratica psicoanalitica. Quello che pratico, e che era al centro degli incontri di formazione, viene definito dell’Oggetto Originario Concreto (**). Questa scuola considera la dimensione corporea come origine della mente e al contempo come il suo primo ed unico oggetto. Ciò consente di superare la dicotomia tra mente e corpo che da millenni caratterizza il pensiero occidentale e postula una sia pur minima conflittualità tra questi due aspetti come origine dei processi di pensiero.
In buona sostanza, la vita e cultura occidentali spingono sempre più verso una dissociazione della mente dal proprio corpo e questo favorisce il presentarsi di squilibri sempre più gravi a carico del corpo e/o della mente: sofferenza fisica, sofferenza psichica. Così nel lavoro analitico si tratta prima di tutto di favorire nell’analizzando un riavvicinamento tra funzioni corporee e funzioni psichiche, prossimità che alla nascita era al massimo grado: si tratta prima di tutto di ricondurre la mente al proprio corpo. Il racconto del passato, decisivo per altre scuole, qui viene accolto solo come espressione del presente, perché il presente è il tempo della corporeità e delle emozioni.
Che cosa c’entra il Tai Chi Chuan?
La verità è che studiando e praticando io stessa questa arte marziale “interna”, come la definiscono i maestri, mi è sembrato di cogliere alcune affinità tra la pratica del Tai Chi Chuan, le sue radici filosofiche che affondano nella storia millenaria del pensiero cinese, segnatamente nel Taoismo e nel Buddismo, e l’ipotesi psicoanalitica a cui mi riferisco. Penso all’incessante e inesauribile training di apprendimento della “Forma”, in cui si allenano la relazione con se stessi attraverso il rapporto con il proprio corpo e la relazione con l’altro, attraverso il tentativo continuo di costruire armonie che riguardino “il dentro e il fuori”, come recita uno dei principi fondamentali di questa arte, e con chi abbiamo di fronte, nel contatto diretto, materiale, nella pratica a due delle tecniche di attacco e difesa, che implicano ascolto e percezione dell’altro. Si è soggetto che osserva e soggetto osservato. Proprio come nel lavoro clinico che svolgo quotidianamente secondo l’ipotesi psicoanalitica dell’Oggetto Originario Concreto: la relazione analitica è considerata come contesto di esperienza sia per l’analista, sia per l’analizzando: l’analista è sollecitato a tornare verso se stesso; l’analizzando ad andare per la prima volta verso se stesso.
Da qui è nata dunque l’idea di invitare Anna Siniscalco a partecipare al convegno di psicanalisi Italo-Brasiliano che si è svolto a Roma, nei giorni 18, 19 e 20 maggio 2018 sul tema: Relazione analitica e funzione terapeutica: variazioni sul tema. Senza che nessuno di noi l’avesse previsto, concordato o voluto, l’intervento di Anna Siniscalco intitolato Relazione, presenza, ascolto e percezione, ha finito per essere, a parere mio e degli altri partecipanti, il fulcro dell’intero incontro.
Per comprendere il Tai Chi Chuan, dice Anna Siniscalco, più che parlarne bisogna praticarlo, e non si poteva certo proporne la pratica a una novantina di persone che poco o nulla ne sapevano.
Difficile anche raccontarlo solo a parole. Così Anna ha invitato alcuni tra allievi, praticanti e istruttori dell’Associazione Dinamica, da lei presieduta, a eseguire alcuni movimenti basilari di Tai Chi, mentre lei ne esplicitava-svelava alcuni aspetti fondanti. “Che cosa avete visto?”, ha domandato al pubblico presente, quando i praticanti si sono fermati. Molti hanno espresso le loro impressioni, le loro osservazioni, con il risultato di partecipazione attiva, interscambio, esperienza.
È stato un momento che ha interessato e emozionato tutti.
Se, come Anna Siniscalco ci dice, “Il praticante di Tai Chi è chiamato ad essere presente a quello che fa, ad essere in contatto con il proprio corpo e inizia così un viaggio con se stesso servendosi del primo veicolo che ha: se stesso, il proprio corpo”, allora io penso che prima di tutto bisognerebbe accorgersi di avere un corpo e tollerarne la caratteristica principale: il suo essere limite per la mente, che di per sé tenderebbe verso l’illimitato, verso l’infinito. Credo cioè che se l’individuo è troppo ostile alla propria dimensione corporea non riuscirà ad accedere ad una pratica come il Tai Chi Chuan. Potrà rivolgersi a pratiche fisiche che gli diano l’impressione di dominare il proprio corpo, di sottometterlo ai voleri della mente, ma non riuscirà a disporsi con l’umiltà e la curiosità necessarie ad incontrarlo e ad apprendere dal suo corpo.
Così come durante l’esperienza analitica si tratta di trovare nuovi modi di rispondere alla sofferenza, via via lasciando cadere le posture psichiche assunte a protezione dal dolore, anche nella pratica del Tai Chi “la prima cosa che la persona viene chiamata a fare dal suo insegnante è smontare la sua struttura fisica, le sue abitudini posturali, attraverso il fare dei movimenti che mettono in discussione la sua comodità e le sue certezze fisiche, a partire dal modo in cui sta in piedi” e dalla ricerca della centratura: il centro non inteso come un punto fisso, ma come l’esito di una continua ricerca, di un’alternanza di stati, come conseguenza di una dinamica tra opposti, rientra nella visione dinamica di cui questa pratica è impregnata.
“Nel Tai Chi impariamo per prima cosa a stare in piedi e a sentire il peso dove è e dove non è …da questo semplice esercizio comprendiamo che questo famoso centro non c’è. Esso varia continuamente in base a come sto… a come ho dormito a come è il mio umore, ecc… Ad ogni istante cerco un centro, ma quel centro non è qualcosa a cui mi devo aggrappare. E’ semplicemente quella condizione ottimale che mi permette di rilasciare una serie di tensioni che diventano altrimenti barriere, impedimenti e di essere il più possibile presente in quello che sto facendo.
Quindi è una attenzione alle situazioni opposte. Anche molto differenti tra loro”. In entrambe le esperienze è dunque possibile destrutturare e ricostruire: teorie, credenze antiche e illusorie certezze, nel contesto della relazione analitica; movimenti e posizioni estremamente dettagliate, cosa che ci costringe ad essere in quel momento, fino a realizzare una posizione allineata e funzionale, attraverso la pratica costante e guidata dal maestro, nel Tai Chi Chuan.
Questo concetto: destrutturare e ricostruire, peraltro affine al nostro procedere clinico in psicanalisi, ha suscitato in alcuni partecipanti al convegno una sorta di smarrimento o perplessità, soprattutto in coloro che coltivavano in sé l’idea del Tai Chi Chuan come l’arte dell’armonia e della pacificazione tout-court, non considerandone gli aspetti dinamici, continuamente includenti aspetti opposti e da integrare. Ma questo ha reso possibile porre l’accento sul fatto che questo processo di decostruzione avviene gradualmente e secondo i ritmi di ognuno, attraverso la guida rispettosa e attenta di un istruttore/maestro.
“È vero – dice Anna Siniscalco – all’inizio impariamo dei movimenti, alleniamo il corpo in modo tale che si sciolgano delle rigidità, alleniamo il corpo e centriamo la mente. Poi, pian piano accade che la nostra capacità di percepire si trasforma e nel processo dell’imparare a lasciare andare, a non
trattenere, è la stessa energia a muovere noi. È da lì che entriamo nel Tao” “Mi chiedete del vuoto, che cosa è… il vuoto non è vuoto. Ci vuole un convegno a parte per parlare del vuoto. Per quel che ho capito e per dirlo in pochi secondi e con il mio limite, il vuoto è la capacità di essere presenti. E’ allontanarsi dal pensiero discorsivo. Per esempio: uno dei tramiti che ci allontana dal pensiero discorsivo e ci distacca dalla realtà è l’arte. Osservando un’opera d’arte per un istante si esce al di fuori della continuità del pensiero. L’arte fa questo… la sensibilità dell’artista … collegarsi con la capacità creativa e spirituale che gli artisti hanno non è cosa facile da gestire, se non si ha un buon radicamento, se non si è allenato corpo e mente a stare stabili, a non farsi trascinare da tutto ciò che può mettere in atto il contatto con emozioni molto potenti”.
Questo passaggio ha profondamente emozionato l’uditorio. Io credo che qui si situi l’essenza della funzione di analista: questa possibilità ad un certo livello non dicibile di entrare in un’altra realtà di noi stessi, in un altro stato di coscienza, nelle profondità del proprio essere corpo, emozioni pensiero, nell’incontro con l’analizzando, per potere affiancare il suo universo, universo che non potrò mai conoscere in sé, ma con il quale potrò soltanto cercare di creare dei ponti, delle connessioni di esperienza. Qualcosa che svolgendosi tra me e l’altro nell’hic et nunc di ogni incontro, di ogni seduta, permetterà ad ognuno dei due partecipanti di tornare verso se stesso trasformato dall’incontro con l’altro. Qualcosa che forse costituisce l’essenza del processo transferale (proprio di ogni relazione umana), qualcosa a cui lo psicanalista Wilfred Bion si è riferito nelle sue formulazioni quando individuava una funzione artista nell’analista. Un’arte, la psicanalisi, che è scienza; una scienza, la psicanalisi, che è arte.
Dopo quel primo incontro così positivo, ho proposto ad Anna Siniscalco di tenere anche un seminario di informazione ai partecipanti ai Corsi di Approfondimento Teorico Clinico che il nostro Istituto organizza per psicoterapeuti interessati ad ampliare il proprio orizzonte clinico e teorico. E
durante questo seminario, che si è svolto il 16 giugno del 2018, sempre a Roma, presenti una trentina di psicoterapeuti in formazione, è nata in me l’idea di chiedere ad Anna Siniscalco di affiancare il suo insegnamento a quello da noi effettuato nei nostri Corsi. La ragione è semplice: ho pensato che la pratica del Tai Chi Chuan, possa costituire una integrazione necessaria prima di tutto per chi si forma al lavoro di analista, se parliamo di una psicanalisi che includa al proprio interno la dimensione corporea in quanto primo e unico oggetto della mente.
Durante il suo seminario, durato tre ore, i partecipanti hanno avuto la possibilità di sperimentare praticamente cosa vuol dire “stare in piedi” “cercare il proprio centro”, “mantenere il contatto con l’altro senza mai staccare e senza volere controllare”(***), “la difficoltà a cedere il controllo”, e altri aspetti fondanti la pratica del Tai Chi Chuan, tutte cose di cui Anna Siniscalco aveva parlato e mostrato durante il suo intervento al nostro convegno.
Alla fine, molti degli analisti presenti al seminario hanno chiesto di poter prolungare questo apprendimento. È nato così un nuovo progetto sperimentale: i corsi mensili di Approfondimento Teorico Clinico del nostro Istituto sono stati preceduti da un’ora e mezzo di pratica di Tai Chi Chuan con Anna Siniscalco per l’anno accademico 2018-2019. Come è ovvio, questa esperienza non ha voluto sostituirsi allo studio regolare e approfondito della pratica del Tai Chi Chuan, ma ha costituito un’opportunità per i partecipanti di partire dal contatto con la propria corporeità nello studio e nella formazione alla pratica psicanalitica.
Al termine, su richiesta di Anna Siniscalco, tutti i partecipanti hanno accettato di esprimere le loro impressioni scrivendo dei feedback sull’esperienza svolta. Ebbene, in tutti i contributi era presente la sorpresa per la scoperta della propria dimensione corporea, del proprio centrarsi, di una nuova e più profonda integrazione tra dimensione corporea e dimensione psichica, di modificazioni riscontrate nel corso del proprio lavoro clinico. Per questo abbiamo deciso di dare seguito a questa esperienza anche il prossimo anno. Sarà un cammino di ricerca volto ad aprire nuove questioni e nuovi orizzonti di studio e di approfondimento.
(*) Psicologa, Psicoterapeuta dell’individuo e della famiglia, Presidente dell’Istituto Psicoanalitico di Formazione e Ricerca “A.B. Ferrari”.
(***) Il corpo è considerato in questa ipotesi Oggetto, in quanto oggetto unico della mente, Originario, in quanto all’origine della funzione mentale e in quanto in esso si fonda la originalità di ognuno e Concreto, in quanto è inteso nella sua concretezza, non come esito di processi di introiezione. E’ il corpo in sé, che è contemporaneamente oggetto concreto e simbolo, in quanto per potere essere pensato esso deve essere rappresentato. La funzione mentale nasce dal corpo con la funzione di ridurre l’intensità delle sensazioni e percezioni (eclissi del corpo) perché possano da esse scaturire processi di pensiero.Il pensiero dunque nasce dalle emozioni e sensazioni e senza di esse non vi può essere pensiero.Vv Ferrari A.B. “L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicanalitica, Borla, 1992. L’avere collocato il corpo all’interno del sistema come unico oggetto della mente, ha comportato una radicale trasformazione della teoria e della tecnica psicanalitica. Vv Ferrari A.B., “Relazione analitica, sistema o processo?”, in rivista di Psicanalisi, 1983. Altri articoli sono stati scritti da lui sullo stesso tema.
(***)Mi riferisco qui all’ipotesi dell’Oggetto Originario Concreto, proposta in ambito psicanalitico da A.B. Ferrari e per conoscere la quale rimando ad alcuni testi, tra i quali segnalo : “L’eclissi del corpo”, Adolescenza:la seconda sfida”, “L’alba del pensiero”, dello stesso autore, editi da Borla, “il pulviscolo di Giotto”, sempre di A.B. Ferrari, edito da Franco Angeli, “Prendere corpo”, a cura di Carignani P. e Romano F., edito da Franco Angeli.
Scarica l’articolo in pdf
L’articolo integrale sarà pubblicato su “Dinamica La Rivista” cui si accede attraverso il sito www.dinamicataichi.it.
di Fausta Romano (*)
Editing a cura di Roberto Seghetti
“Non sappiamo, forse non sapremo mai cosa si prova ad essere un pipistrello (Thomas Nagel), (…) ma in realtà non sappiamo neppure cosa si provi ad essere un “homo sapiens”. Infatti non si tratta
di sapere, ma, per così dire, di “sentire””. (Garroni E., Introduzione a Ferrari A.B., L’eclissi del corpo).
Nel mio lavoro di psicoterapeuta, per potere attivare processi di trasformazione e di pensiero che appaiono inizialmente bloccati nelle persone che sto analizzando, è necessario occuparmi di come armonizzare in lui/lei il sistema mente/corpo/emozioni. In questo percorso può aiutare molto adottare anche una via pratica: una volta che la persona che sto analizzando è riuscita ad accettare e rispettare la propria corporeità come fonte di emozioni e di pensiero, diventa per lei possibile accedere, se lo ritiene, a qualcosa che gli permette di farne esperienza in modo concreto.
Da tempo ho cominciato a chiedermi se il Tai Chi Chuan(**), che io stessa pratico da circa quattro anni, possa costituire un utile strumento di integrazione e completamento del lavoro analitico.
Se cioè l’analizzando, possa sperimentare attraverso la pratica di questa arte marziale, cosa possa significare per lui essere un corpo.
È un tema decisivo. Che cosa vuol dire “un corpo”? Se facciamo attenzione a come funziona il nostro corpo, scopriamo che ci troviamo davanti a un sistema sofisticato. Faccio qualche esempio.
La pelle è capace di filtrare e selezionare, distinguendo l’interno dall’esterno. Non tutto può entrare, non tutto può uscire. È lo strumento di un continuo interscambio corpo/ambiente. L’apparato digerente riceve, seleziona, filtra, distingue, trasforma, accoglie e espelle. L’apparato immunitario è capace di distinguere il sé dal non-sé, espelle, rifiuta ciò che non fa parte di quel corpo, e lo protegge da agenti esterni pericolosi per la sua sopravvivenza.
La nostra mente uguale: riceve, distingue differenzia, seleziona, accoglie, espelle! Voglio dire che il nostro sistema, corpo/mente/emozioni, con differenti livelli di organizzazione tra loro interconnessi, sa funzionare a meraviglia: il nostro corpo è il risultato di migliaia di anni di selezioni e di ricerca di sistemi per vivere con saggezza.
Per questa ragione l’idea tutta occidentale di una mente completamente separata dalla materialità del nostro corpo e che può organizzare un modo di vivere che maltratta questo sistema così sofisticato, il nostro corpo, può produrre sofferenza. Mangiare in modo disordinato, non seguire i ritmi naturali del sonno, non curare la respirazione, il movimento…
Pensare insomma che finitezza e vulnerabilità non ci riguardino e che la materia di cui siamo fatti possa essere maltrattata senza limiti porta a conseguenze che possono rivelarsi pesanti.
Questo unico amico che abbiamo, il nostro corpo, a un certo punto si stufa, non ne può più, e fa sentire la sua voce: una serie di raffreddori, di influenze, di piccoli acciacchi, sempre più
frequenti… E se non ci bastano questi avvertimenti, allora il corpo URLA. E diventa difficile ignorarlo.
Nel mio lavoro incontro anche ammalati di cancro o di malattie degenerative o di allergie gravi, cardiopatie. Penso di poter dire che la malattia, anche così grave, rappresenta una estrema richiesta di aiuto del corpo alla mente, una estrema espressione di vitalità di quel sistema che si sta dirigendo verso l’autodistruzione(***).
Lo stesso linguaggio di guerra che i pazienti e la stessa medicina usano verso la malattia non permette di considerarla un segnale di vita. Il cancro o il diabete, o altro ancora, sono il nemico da sconfiggere: “Lo combatteremo, riusciremo ad avere la meglio su di lui, dobbiamo armarci per vincerlo, dobbiamo usare tutte le armi che abbiamo per sconfiggerlo”. Sembrano parole molto rassicuranti, per chi ha scoperto la propria malattia e ne ha paura. Così, quando bussano alla mia porta in preda al terrore, io cerco di scoprire insieme a queste persone quante volte il corpo aveva già mandato segnali, non presi in considerazione; quanto sia importante non aggredire la malattia, a volte il cancro, poiché fa parte di quel corpo. Quanto sarebbe importante invece dare al corpo ciò che gli serve per vivere, rinforzarlo, aiutarlo.
Se non per guarire, almeno per vivere ciò che c’è da vivere. Cerco di aiutare la mente di queste persone a volgersi verso il corpo proprio e dal quale ad ogni istante lei prende vita, in modo conciliante e rispettoso, a lenire la paura, ad amare la vita anche in quanto include in sé l’ignoto, la finitezza, il dolore (certo, a condizione che questo sia tollerabile).
Se capiscono, cominciano a fare pace proprio con quel corpo da cui si sono sentiti traditi e, se riusciamo a funzionare nel lavoro analitico, diventa possibile scoprire un’altra vita: delimitata dalla morte forse più vicina di prima, ma con la possibilità di scoprire un altro universo, fatto di gusto, di piacere, di attenzione ai propri bisogni, ai propri desideri forse anche; insomma ora la vita sembra assumere significato.
Includere la propria finitezza e la propria vulnerabilità, il dolore come il piacere, è la chiave per potere vivere, anche se non è facile.
Per questa ragione, mi sembra che nella mia pratica clinica poco posso fare se non riesco per prima cosa a sollecitare in chi si rivolge a me un po’ di curiosità verso se stesso e il proprio modo di funzionare, prima di tutto ad accorgersi di “avere un corpo”: un corpo che fin dal primo istante gli parla e non trova molto ascolto, a volgere lo sguardo verso se stessi, a assumere la consapevolezza della propria corporeità, a fare pace con il proprio limite, a assumere la responsabilità del proprio essere ciò che si è.
In altri momenti, invece, noi tutti siamo il nostro corpo. In questo caso la distanza utile per auto-osservarci non c’è: siamo un tutto, immanente nel tempo in cui siamo, nel presente. Essere un corpo, avere un corpo: in questo senso siamo un insieme paradossale di unità nell’alterità.
Qui interviene in Tai Chi Chuan. Sto scoprendo in questa arte marziale l’occasione di un allenamento duro e appassionante, che mi conduce esattamente nel punto che mi mancava: esperienza continua e sempre più approfondita del paradosso dell’essere umano – contemporaneamente “essere un corpo” e sapere di “avere un corpo”.
La pratica del Tai Chi mi insegna a essere presente nel presente, a condurre dolcemente la mia mente verso il mio corpo, a avere pazienza, a scoprire e accettare il mio limite, il mio tempo, il mio ritmo, ascoltare le trasformazioni che lentamente, giorno dopo giorno, e per tutto il tempo che vorrò e potrò, si vanno generando in me, nel mio sistema, nel mio corpo verso la mia mente, nella mia mente verso il mio corpo. L’attenzione costante agli assi e alle direzioni lungo le quali devo disporre il corpo perché scopra l’equilibrio, l’apertura, l’estensione nello spazio, in ogni istante del tempo in cui, solo, il corpo può essere: il presente.
Mi domando allora: la coscienza di avere ed essere un corpo che si può acquisire attraverso un’esperienza di analisi, potrebbe incontrare un ampliamento significativo, in chi sia interessato, attraverso un apprendimento attento, continuo e costante di questa antica arte marziale che è il Tai Chi Chuan?
Si apre qui, per me e per chi possa essere interessato, una via di ricerca e di studio, lungo la quale, certamente, altri interrogativi, altre questioni si potranno porre sul tema di una possibile
integrazione.
(*) Psicologa, Psicoterapeuta, già psicologa dirigente presso il Servizio di Salute mentale di RomaB, attualmente presidente dell’Istituto Psicanalitico di Formazione e Ricerca “A,B, Ferrari”, ha collaborato per venti anni con il prof. Armando B. Ferrari all’elaborazione di una recente ipotesi psicanalitica che sviluppando il pensiero di S. Freud, M. Klein e W.R. Bion, recupera la dimensione corporea al pensiero e alla pratica psicoanalitica. L’ipotesi dell’Oggetto Originario Concreto propone di considerare la dimensione corporea come origine della mente e come suo unico oggetto: “non la madre, non il seno materno sono oggetto per il neonato, ma la sua stessa fame”. Vv. Ferrari A.B. , L’Eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica, Borla, 1992, A seguire, altri libri e articoli sono stati da lui pubblicati come espansione clinica e teorica della sua ipotesi.
(**) Sto conoscendo questa arte marziale attraverso lo studio e la pratica della forma tradizionale dello stile Yang, come proposto dal Gran Maestro Yang Jun attraverso l’insegnamento di Anna Siniscalco e Teresa Zuniga, c/o
Associazione Dinamica Tai Chi Chuan e Arti associate, ASD.
(***)Vv su questo tema il contributo di Paolo Bucci, “La malattia, un’occasione per pensare la vita”, in Bergerone C., Radano D., Tauriello S. (a cura di), Instabili equilibri. Dalla fisicità al pensiero, Cafoscarina, Venezia 2013.
Scarica il pdf dell’articolo
L’articolo integrale sarà pubblicato su “Dinamica La Rivista” cui si accede attraverso il sito www.dinamicataichi.it.
Scriviamo questa nota come appello per aiutare una bambina, figlia di una coppia di colleghi, che necessita di un trapianto di midollo osseo.
Si cerca con urgenza un donatore di midollo osseo compatibile.
Qui di seguito i riferimenti per ricevere informazioni:
IBMDR – Registro Italiano Donatori di Midollo Osseo (IBMDR – Italian Bone Marrow Donor Registry)
Laboratori di Istocompatibilità E.O. Ospedali Gallieri
Via Volta, 19/15
16128 – Genova
Telefono :+39 010 563 44 34
e-mail: simona.pollichieni@ibmdr.galliera.it
sito web: ibmdr.galliera.it/ibmdr