di Fausta Romano (*)
Editing a cura di Roberto Seghetti
“Non sappiamo, forse non sapremo mai cosa si prova ad essere un pipistrello (Thomas Nagel), (…) ma in realtà non sappiamo neppure cosa si provi ad essere un “homo sapiens”. Infatti non si tratta
di sapere, ma, per così dire, di “sentire””. (Garroni E., Introduzione a Ferrari A.B., L’eclissi del corpo).
Nel mio lavoro di psicoterapeuta, per potere attivare processi di trasformazione e di pensiero che appaiono inizialmente bloccati nelle persone che sto analizzando, è necessario occuparmi di come armonizzare in lui/lei il sistema mente/corpo/emozioni. In questo percorso può aiutare molto adottare anche una via pratica: una volta che la persona che sto analizzando è riuscita ad accettare e rispettare la propria corporeità come fonte di emozioni e di pensiero, diventa per lei possibile accedere, se lo ritiene, a qualcosa che gli permette di farne esperienza in modo concreto.
Da tempo ho cominciato a chiedermi se il Tai Chi Chuan(**), che io stessa pratico da circa quattro anni, possa costituire un utile strumento di integrazione e completamento del lavoro analitico.
Se cioè l’analizzando, possa sperimentare attraverso la pratica di questa arte marziale, cosa possa significare per lui essere un corpo.
È un tema decisivo. Che cosa vuol dire “un corpo”? Se facciamo attenzione a come funziona il nostro corpo, scopriamo che ci troviamo davanti a un sistema sofisticato. Faccio qualche esempio.
La pelle è capace di filtrare e selezionare, distinguendo l’interno dall’esterno. Non tutto può entrare, non tutto può uscire. È lo strumento di un continuo interscambio corpo/ambiente. L’apparato digerente riceve, seleziona, filtra, distingue, trasforma, accoglie e espelle. L’apparato immunitario è capace di distinguere il sé dal non-sé, espelle, rifiuta ciò che non fa parte di quel corpo, e lo protegge da agenti esterni pericolosi per la sua sopravvivenza.
La nostra mente uguale: riceve, distingue differenzia, seleziona, accoglie, espelle! Voglio dire che il nostro sistema, corpo/mente/emozioni, con differenti livelli di organizzazione tra loro interconnessi, sa funzionare a meraviglia: il nostro corpo è il risultato di migliaia di anni di selezioni e di ricerca di sistemi per vivere con saggezza.
Per questa ragione l’idea tutta occidentale di una mente completamente separata dalla materialità del nostro corpo e che può organizzare un modo di vivere che maltratta questo sistema così sofisticato, il nostro corpo, può produrre sofferenza. Mangiare in modo disordinato, non seguire i ritmi naturali del sonno, non curare la respirazione, il movimento…
Pensare insomma che finitezza e vulnerabilità non ci riguardino e che la materia di cui siamo fatti possa essere maltrattata senza limiti porta a conseguenze che possono rivelarsi pesanti.
Questo unico amico che abbiamo, il nostro corpo, a un certo punto si stufa, non ne può più, e fa sentire la sua voce: una serie di raffreddori, di influenze, di piccoli acciacchi, sempre più
frequenti… E se non ci bastano questi avvertimenti, allora il corpo URLA. E diventa difficile ignorarlo.
Nel mio lavoro incontro anche ammalati di cancro o di malattie degenerative o di allergie gravi, cardiopatie. Penso di poter dire che la malattia, anche così grave, rappresenta una estrema richiesta di aiuto del corpo alla mente, una estrema espressione di vitalità di quel sistema che si sta dirigendo verso l’autodistruzione(***).
Lo stesso linguaggio di guerra che i pazienti e la stessa medicina usano verso la malattia non permette di considerarla un segnale di vita. Il cancro o il diabete, o altro ancora, sono il nemico da sconfiggere: “Lo combatteremo, riusciremo ad avere la meglio su di lui, dobbiamo armarci per vincerlo, dobbiamo usare tutte le armi che abbiamo per sconfiggerlo”. Sembrano parole molto rassicuranti, per chi ha scoperto la propria malattia e ne ha paura. Così, quando bussano alla mia porta in preda al terrore, io cerco di scoprire insieme a queste persone quante volte il corpo aveva già mandato segnali, non presi in considerazione; quanto sia importante non aggredire la malattia, a volte il cancro, poiché fa parte di quel corpo. Quanto sarebbe importante invece dare al corpo ciò che gli serve per vivere, rinforzarlo, aiutarlo.
Se non per guarire, almeno per vivere ciò che c’è da vivere. Cerco di aiutare la mente di queste persone a volgersi verso il corpo proprio e dal quale ad ogni istante lei prende vita, in modo conciliante e rispettoso, a lenire la paura, ad amare la vita anche in quanto include in sé l’ignoto, la finitezza, il dolore (certo, a condizione che questo sia tollerabile).
Se capiscono, cominciano a fare pace proprio con quel corpo da cui si sono sentiti traditi e, se riusciamo a funzionare nel lavoro analitico, diventa possibile scoprire un’altra vita: delimitata dalla morte forse più vicina di prima, ma con la possibilità di scoprire un altro universo, fatto di gusto, di piacere, di attenzione ai propri bisogni, ai propri desideri forse anche; insomma ora la vita sembra assumere significato.
Includere la propria finitezza e la propria vulnerabilità, il dolore come il piacere, è la chiave per potere vivere, anche se non è facile.
Per questa ragione, mi sembra che nella mia pratica clinica poco posso fare se non riesco per prima cosa a sollecitare in chi si rivolge a me un po’ di curiosità verso se stesso e il proprio modo di funzionare, prima di tutto ad accorgersi di “avere un corpo”: un corpo che fin dal primo istante gli parla e non trova molto ascolto, a volgere lo sguardo verso se stessi, a assumere la consapevolezza della propria corporeità, a fare pace con il proprio limite, a assumere la responsabilità del proprio essere ciò che si è.
In altri momenti, invece, noi tutti siamo il nostro corpo. In questo caso la distanza utile per auto-osservarci non c’è: siamo un tutto, immanente nel tempo in cui siamo, nel presente. Essere un corpo, avere un corpo: in questo senso siamo un insieme paradossale di unità nell’alterità.
Qui interviene in Tai Chi Chuan. Sto scoprendo in questa arte marziale l’occasione di un allenamento duro e appassionante, che mi conduce esattamente nel punto che mi mancava: esperienza continua e sempre più approfondita del paradosso dell’essere umano – contemporaneamente “essere un corpo” e sapere di “avere un corpo”.
La pratica del Tai Chi mi insegna a essere presente nel presente, a condurre dolcemente la mia mente verso il mio corpo, a avere pazienza, a scoprire e accettare il mio limite, il mio tempo, il mio ritmo, ascoltare le trasformazioni che lentamente, giorno dopo giorno, e per tutto il tempo che vorrò e potrò, si vanno generando in me, nel mio sistema, nel mio corpo verso la mia mente, nella mia mente verso il mio corpo. L’attenzione costante agli assi e alle direzioni lungo le quali devo disporre il corpo perché scopra l’equilibrio, l’apertura, l’estensione nello spazio, in ogni istante del tempo in cui, solo, il corpo può essere: il presente.
Mi domando allora: la coscienza di avere ed essere un corpo che si può acquisire attraverso un’esperienza di analisi, potrebbe incontrare un ampliamento significativo, in chi sia interessato, attraverso un apprendimento attento, continuo e costante di questa antica arte marziale che è il Tai Chi Chuan?
Si apre qui, per me e per chi possa essere interessato, una via di ricerca e di studio, lungo la quale, certamente, altri interrogativi, altre questioni si potranno porre sul tema di una possibile
integrazione.
(**) Sto conoscendo questa arte marziale attraverso lo studio e la pratica della forma tradizionale dello stile Yang, come proposto dal Gran Maestro Yang Jun attraverso l’insegnamento di Anna Siniscalco e Teresa Zuniga, c/o
Associazione Dinamica Tai Chi Chuan e Arti associate, ASD. (***)Vv su questo tema il contributo di Paolo Bucci, “La malattia, un’occasione per pensare la vita”, in Bergerone C., Radano D., Tauriello S. (a cura di), Instabili equilibri. Dalla fisicità al pensiero, Cafoscarina, Venezia 2013.
L’articolo integrale sarà pubblicato su “Dinamica La Rivista” cui si accede attraverso il sito www.dinamicataichi.it.